La finanza internazionale e il venture capital stanno puntando con decisione sulle aziende del comparto, che sostanzialmente abilitano soluzioni di decarbonizzazione nel mondo della produzione. Parliamo di segmenti di business diversi, che vanno

dall’efficientamento dell’energia, al recupero e il riciclo dei materiali e a tutto quanto connesso all’economia circolare in produzione, alle soluzioni per la logistica e alle tecnologie che contribuiscono a efficientare le filiere produttive e distributive, così come la gestione di forme di compensazione (come l’acquisto di crediti di carbonio certificati) scrive Stefano Guidotti, Partner di P10.

Secondo l’ultimo State of Climate Tech Report di PwC, nel 2021 il capitale investito nelle startup green è cresciuto del 210% rispetto al 2020, toccando quota 87,5 miliardi di dollari di raccolta. Un trend che, secondo dati parziali, sembrerebbe essere proseguito anche nel 2022.

Quanto all’Italia, il numero di startup a significativo impatto sociale e ambientale a fine 2021 è di 486 (secondo il Social Innovation Monitor dell’Università di Torino) ed è cresciuto del 28,2% rispetto alle 349 società rilevate alla fine del 2020. Sono ancora poche sul totale generale delle Startup Innovative (dal 3,1% di fine 2020 al 3,8% del 2021), ma in crescita. Servono però investimenti, di sistema, importanti e serve una strategia.

Se la tensione verso la sostenibilità è un fatto acclarato, quello che emerge ancora troppo poco è la strettissima correlazione tra tale transizione e il processo di digitalizzazione in corso, che è abilitato dalle startup.

Vediamo sempre più realtà di grande prospettiva che stanno sviluppando soluzioni in verticali tecnologici che rappresentano l’infrastruttura su cui verranno costruiti i modelli di consumo e produzione sostenibili di domani, che siano anche più resilienti rispetto ai cambiamenti climatici già in atto. Ed è chiaro che il trend veda in prima linea i migliori talenti e gli imprenditori più capaci, che in queste sfide epocali si riconoscono anche da un punto di vista culturale. Essi danno vita alle realtà cosiddette “purpose driven” ovvero la cui missione di business è guidata da una proposizione di miglioramento dello status quo (sociale o ambientale), e che sono anche quelle che hanno un vantaggio nell’assicurarsi i migliori talenti, anche negli ambiti in cui il mercato del lavoro è più competitivo (ambiti tecnologici, digital marketing, ecc.).

Uno degli ambiti in prima linea nel processo di transizione (in questi giorni oggetto delle dibattute discussioni nell’ambito del COP27 di Sharm el Sheik) è sicuramente quello dell’energy. Tra l’altro, in Europa e ancor di più in Italia la sfida all’innovazione in questo settore risponde sia alle esigenze legate ai temi di sostenibilità ambientale, sia al tema dell’autonomia energetica necessaria per svincolarsi dall’import di gas. La transizione spinge in modo chiaro nella direzione di un passaggio alle fonti rinnovabili e a modalità di produzione decentrate. Che però per loro natura sono intermittenti, mentre la domanda è conformata a un flusso di fornitura costante. Si vedranno sempre di più comunità energetiche autonome (in cui l’Italia è stata, soprendentemente, uno dei primi paesi a legiferare con il Decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199) interconnesse con il sistema distributivo centrale. Perché offerta e domanda si incontrino, è necessario lo sviluppo di soluzioni digitali che consentano di gestire i flussi in modo decentrato e di incentivare e monitorare produzioni e consumi da parte di utenti finali che saranno sempre più non solo consumatori ma anche produttori e distributori di energia elettrica. Ci sono già realtà innovative che stanno sviluppando tecnologie in tale direzione (ne sono esempi fuori dall’Italia Spectral Energy, Energy Web o Power Ledger), per una strada che sembrava fino a ieri utopica e oggi, grazie a queste, è realmente una via percorribile.